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Apocalittici o Integrati?

Il fumetto e il cinema ci spiegano l’uomo delle piattaforme

di Davide Speranza

A proposito della riedizione pubblicata nel 1994 di una delle sue opere cult, “Apocalittici e Integrati”, Umberto Eco scriveva: «Eppure questo libro ha successo e suscita una serie massiccia di polemiche proprio perché sembra cogliere di sorpresa una fascia della cultura italiana. Il documento forse più tipico è una recensione di Pietro Citati intitolata “La Pavone e Superman a braccetto di Kant”. Se il titolo è sbarazzino, il contenuto dell’articolo è preoccupato: il libro è detto spiritoso e intelligente, ma si lamenta che mentre “in ogni buona ricerca scientifica, la materia studiata sceglie i propri strumenti, che si identificano perfettamente con essa…Eco, quasi volesse farsi perdonare l’umiltà del proprio argomento, cita senza ragione Husserl, Kant e Baltrušaitis”. Sorvoliamo sull’idea che gli strumenti di analisi di una materia si devono identificare con essa, come se uno studio di criminologia dovesse procedere a coltellate e Kant potesse essere usato solo quando si parla di filosofia… il fatto è che l’autore dell’articolo vede con molto sospetto questo uso degli strumenti della cultura Alta per spiegare e analizzare la cultura Bassa».

Insomma… come non essere d’accordo con Eco? In quel suo volumetto – edito per Bompiani – l’illustre semiologo (e demiurgo del romanzo cult “Il nome della rosa”), mette sotto microscopio le dinamiche legate alla cultura di massa e alla aristrocratizzazione del sapere. Parla di fumetti, tv e cinema, mischiando Superman, Charlie Brown ed Elemire Zolla, la strumentalizzazione delle politiche culturali, Aristotele e Modugno, Edipo, il mito e la civiltà del romanzo. Negli anni Sessanta dello scorso secolo, si poteva essere integrati nella nuova visione del mondo futuro o apocalittici e diffidenti rispetto al guazzabuglio culturale che si andava ammassando. In realtà, il discorso di Eco è molto più articolato e andrebbe scandagliato capitolo per capitolo: non è questa la sede. Ma una cosa va detta e cioè che aveva intravisto, prima di tanti intellettuali, quanto fosse ormai indispensabile un ragionamento ipertestuale, attraversando i “livelli” della cultura, alta media bassa. Mi ricorda l’intervista che realizzai mesi fa, a un professore illuminato, Gianluca Esposito. La sua convinzione era quella di spiegare la filosofia agli studenti grazie al cinema. “Il film cela, la filosofia disvela”, recita il payoff del suo sito likeinthemovies.it

La questione è che la percezione dei linguaggi è cambiata, ha subito una evidente trasformazione anche grazie ad alcune forme d’arte, fumetto e cinema ad esempio. Vien da chiedersi se non ci fosse stato il grande lenzuolo bianco nelle sale buie di ogni città, Zuckerberg avrebbe mai pensato alla nascita del Metaverso? Se non ci fossero stati i fumetti, centinaia di film non si sarebbero ispirati ai balloon. Solo per citarne alcuni che mi vengono in mente, avremmo perso capolavori come il Joker di Todd Philipps (e l’interpretazione in stato di grazia di Joaquin Phoenix), o Watchmen di Zack Snyder ripreso dall’originale fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons, e ancora non avremmo visto Akira di Katsuhiro Ōtomo tratto dal suo stesso manga omonimo. Federico Fellini andava matto per le vignette e trasferì le sue ultime storie nell’immaginario illustrato di Milo Manara.
Film e fumetti. Storiellette? Forse, ma non solo. Al pari di Edgar Allan Poe, William Faulkner, Orwell, Bradbury e i tanti scrittori e pensatori della storia, gli autori di fumetti hanno previsto – ritornando un po’ a Eco – il futuro indicibile, ne hanno semplificato i contorni, diradato le sfumature diaboliche utilizzando una grammatica rivoluzionaria, che potesse adattarsi alla lettura di tanti. Il potere delle dittature, il proletariato e la lotta di classe, l’orrore dell’animo umano, l’alienazione e la carità, l’esilio e il riscatto, i mostri, le Bibbie e i risvegli, le ombre di uomini incatenati dentro grotte e l’ipertecnologia, il potere dei media e dell’economia, i supereroi e i non eroi. Oggi si parla tanto di graphic novel. Il mondo dei personaggi di carta è stato sdoganato: sempre pachidermicamente lenta è l’Italia, ma i segnali sono buoni, se pensiamo ad autori come Gipi, Izzo e Gaglione candidati al Premio Strega. Sono narratori, questo conta. Parlano di noi, dei nostri stramaledetti tic, delle nostre cattiverie, delle virtù e delle bugie. La letteratura fa questo. Parla dell’uomo. In continuazione. Quanto più si parla delle debolezze quotidiane e dei dimenticati, tanto più cresce una immedesimazione, un transfert. Pensiamo al Fantozzi di Paolo Villaggio: pochi oggi ricordano che il film era tratto dal romanzo bestseller dello stesso attore. Parlando delle disgrazie comiche e grottesche del “Fantocci” o del “Fracchia”, Villaggio si riferiva allo sconfitto. Dalla commedia alla tragedia, andata e ritorno. Così è per il passaggio fumetto-pellicola. E allora scopri che Superman, l’uomo pipistrello, Hulk, Ant-Man sono anche persone come noi, con difetti, squallide debolezze e storture dell’animo. Un accavallamento dei nostri affanni, che si trasfigura senza il filtro di un testo. Un fenomeno che negli ultimi vent’anni ha conosciuto nuova linfa e ha prodotto diversi scenari sociali tra i giovani. Dall’inizio del nuovo millennio, la conversione carta-film è continuo, non conosce crisi, e va al di là del semplice vedere: la visione si incarna nel reale. Insieme a Mario Punzo, direttore della “Scuola Italiana di Comix” di Napoli, ho provato a capire il successo di questo rito, che affonda le mani anche nei processi economici.

«Negli ultimi tempi c’è un rilancio incredibile del fumetto – mi spiega Punzo – Intanto oggi, se vai in una fiera in Italia, vedi di tutto. Non c’è solo fumetto, ma cosplayer, manga, cinema, videogiochi, gadget. Quel che è diventato centrale è il settore dell’entertainment, esiste tutto un mercato che ci gira intorno. La coscienza che questa industria potesse produrre lavoro a tutti gli effetti non era chiara in Italia. Nel nostro paese non si aveva la concezione di investire su questi temi. In tal senso, il grosso fenomeno degli ultimi anni è quello dei videogiochi, ma anche quello del cinema e i film tratti da vignette. Noi della Comix realizziamo il Commissario Ricciardi e I bastardi di Pizzofalcone. Storie che nascono dai romanzi di Maurizio de Giovanni e diventano fumetto, e poi serie televisive e teatro. Il fumetto si inserisce in questo circuito ampio. La possibilità di utilizzare più piattaforme ha ampliato anche il mestiere del disegnatore. Le sue immagini diventano video, viaggiano in Rete. Nascono i “Webtoon”, fumetti digitali che si leggono in verticale sul cellulare. In poche parole, il mercato si allarga, crea lavoro ed economia. C’è da dire, in ogni caso, che il fumetto ha una sua autonomia, è il modo più povero per portare una storia, a livello economico. Se un fumetto funziona, facilmente funzionerà la traduzione cinematografica. Igort è un esempio. Da “5 è il numero perfetto” è nato il film con Toni Servillo. Cosa dire di Zerocalcare? Nell’ultima settimana è il più cliccato su Netflix. È diventato un fenomeno del cinema, distribuito in centinaia di paesi. Sempre dal mondo dei fumetti, a breve avremo sul grande schermo il Diabolik dei Manetti Bros, che richiama una intera generazione di lettori. Il fatto è che la comunicazione cambia e corre veloce. Abbiamo molte piattaforme su cui accordare storie. Fumetto, poi fumetto e tv, fumetto-tv-cinema, i social, le serie. Se vuoi comunicare qualcosa devi essere pronto a legarti a più strumenti. Un po’ tutto è diventato narrazione, anche la pubblicità. Lo storytelling è l’elemento centrale del sistema. I nuovi media hanno preso lo spazio dei vecchi media. La nostra stessa vita sta diventando una narrazione».

Volevo anche il punto di vista di un disegnatore. Entrare nella fusione sintattica cinema-fumetto. Così ho avuto l’opportunità di contattare Marco Castiello. Un artista che si è formato all’Accademia di Belle Arti di Napoli, laureandosi in Scenografia per poi entrare a far parte della Marvel Comics come vincitore del Chesterquest, un contest internazionale per giovani disegnatori. Non si è fatto mancare realtà come Top Cow e DC Comics, e poi nel 2012 approda in Dark Horse per lavorare alle miniserie Star Wars Knight Errant: Escape, Star Wars: Purge: The Tyrant’s Fist e Star Wars: Rebel Heist.

«Il matrimonio tra cinema e fumetto è felice, sì – racconta Marco – ma i risultati non sempre sono buoni, molto spesso anzi c’è una tendenza ad attingere a cose già esistenti, per motivi di sicurezza economica, rivolgendosi a un bacino di utenza storico e consolidato nel corso degli anni. Questione di incasso al botteghino. I prodotti più riusciti negli ultimi anni, secondo me, sono Captain America: The Winter Soldier, il secondo di Hellboy, i primi due Iron Man, e WandaVision per le serie tv. La gente vuole andare a vedere il mito, il supereroe, è affascinata dalla figura del giustiziere, del grande avventuriero. Personalmente spero sempre che il pubblico, uscendo dal cinema, vada poi a leggere il fumetto. È bello quando diversi mondi si alimentano a vicenda, come se vedessi un film tratto da un romanzo di Stephen King e andassi poi a leggere il suo libro. Il mestiere del fumettista ha una sua responsabilità e delicatezza, in ogni caso non ti capita così. Come tanti altri lavori, te lo devi cercare, devi volerlo fortemente, richiede anni di studio. Una volta che entri l’emozione è tanta, perché hai tra le mani un personaggio che esiste 50 anni prima di te e sai che verrà letto da tante persone. Diciamo che è una responsabilità verso la fantasia di questi lettori, non puoi tradirne l’immaginario e l’idea».

Ci sono diverse cose che il direttore Punzo e Marco mi hanno detto accendendomi più di una lampadina in testa. La gente vuole vedere il mito. L’economia e le sue grinfie sul mercato giovanile. Il mestiere e la fatica. La responsabilità di un immaginario collettivo. La velocità, a volte funzionale, altre volte violenta, della comunicazione. L’economia che si inserisce ovunque e spazza la divisione tra cultura alta media bassa. Tutto questo parla al presente e al futuro del mondo. Incrociare i linguaggi, le culture, miscelare il vecchio al nuovo, “integrare” la visione per non creare “apocalittici” scenari, diventare un po’ più consapevoli. Parlare di fumetto, in un festival del cinema, serve anche a questo. A capire meglio il mondo, semplificandone, forse, le articolazioni sintattiche, non nel senso di rimanere sulla superficie. L’immagine – strumento tribale dall’alba dei tempi – ci chiarisce le dinamiche della caccia e del sesso, della morte e della gloria. È strano, ma a conti fatti c’è una stretta connessione tra i nostri tempi supertecnologici improntati alla comunicazione visiva e i tempi delle caverne, degli uomini preistorici. Preistoria e contemporaneità non sono mai state così consequenziali, come se ci fosse stato uno strappo di pagine del fumetto o il cut della pellicola: dal monolite kubrickiano al Metaverso di facebook. Andatevi a vedere un film al cinema – non restate solo sulle piattaforme, ma usatele – leggetevi i fumetti, poi però compratevi il libro di Umberto Eco e leggetevi pure quello: integrate occhi e labbra, cuore e cervello vi ringrazieranno. E chissà che non vi venga in mente di scrivere un saggio sulle apocalissi di Zuckerberg e compagni.

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