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“Voglio toccare la testa di Maradona”

Al COFFI, una mostra su D10S

di Davide Speranza

Un bambino tiene stretta la mano del padre. Le campane di San Gregorio Armeno scuotono l’aria tiepida. Un ambulante apparecchia il baldacchino con sopra i Nintendo “appezzottati”. La musica di Super Mario Bros. segue il ritmo psichedelico di una lampada a fili in fibra ottica… appezzottata pure lei. Padre e figlio entrano in un noto bar di Napoli, un incavo della strada che collega San Biagio dei Librai al cardo maior di San Gennaro. Super Mario suda per farsi notare, spernacchia, salta e distrugge mostri. Di fronte, se ne sta sdraiata la statua del dio Nilo, in ricordo del passaggio dei mercanti egiziani, quando già allora i napoletani ospitavano le culture del mondo. Anche la divinità, barbuta e palestrata, si impegna a destar stupore, mantenendo in mano la cornucopia mentre con l’altro braccio si appoggia alla Sfinge. Ma il bambino non fa attenzione al chiasso, alle loro moine, non dà spazio né all’idraulico in completo blu e rosso, né al sacro marmo propiziatorio. A batterli è un capello. «Papà voglio toccare la testa di Maradona» dice il piccolo. «È solo un ricciolo – risponde il padre –non si può toccare. Vedi, quel capello chiuso nella teca fa miracoli e i miracoli non si possono prendere in mano, però si possono vedere e io li ho visti».

Stavo scattando un paio di foto per una rivista, in bocca sentivo ancora il peperoncino mischiato a liquerizia buttato giù nello stomaco dopo una scommessa con un caro amico. Al COFFI stanno organizzando una mostra su Diego Armando Maradona, che si terrà durante il festival tra l’8 e il 12 dicembre. 18 creativi tra arte e musica, per omaggiare il Mito. Avevo fatto capolino qui e lì, rubando la visione di alcune opere, quelle di un Diego inedito, cristologizzato, acquerellato, warholizzato, fotografato, un volto di Diego compare sullo sfondo di uno spartito di musica, forse per scandirne il ritmo. Ma la sorpresa dell’esposizione sarà tutta da godere. E mentre cercavo di ricordare quali potessero essere gli artisti della collettiva, ascoltai quella conversazione tra padre e figlio. Avevo le lacrime agli occhi, non per la commozione, mi bruciava il palato da morire. È stato in quel momento che vidi il capello piegarsi e sgattaiolar fuori dal suo reliquiario. Si stiracchiò ben bene e uscì dal bar. Provai a seguirlo, ma era stato un guizzo, scomparve tra i vicoli dei Tribunali, tra i palazzi scrostati e l’odore umido delle impalcature in ferro. Era stata una suggestione? Un miracolo? Il peperoncino? La scrittrice spagnola Rosa Montero nel suo bellissimo libro “La pazza di casa”, riferendosi alle illuminazioni di uno scrittore, le ha paragonate ai dorsi o alle code delle balene negli oceani: compaiono un secondo, con i baluginii del sole a rinfrangersi sulla loro pelle lucida, poi svaniscono negli abissi, e tu devi essere bravo a coglierne il senso. Ecco… il capello animato di Maradona era stato la mia balena? Decisi di scrivere il soggetto per un cortometraggio. Quanta roba è stata sceneggiata, disegnata e cantata su e per Diego Armando Maradona!

Di solito i film sul calcio non vengono bene. Non sono veritieri, non aggiungono nulla, anzi a volte sottraggono. Lo sport del calcio è un mostro antropologico, sta lì e cambia continuamente ma in realtà non cambia mai, perché è la buccia dell’umanità. Il calcio è l’umanità che corre dietro a una palla di pezza, per metterla dentro la rete. C’è un inizio, un tempo centrale e il triplice fischio finale. A volte può scapparci il supplementare e arrivare ai rigori. Ma stai certo che alla fine della partita, dopo sbandierate, strepitii, risse, sudore, lacrime, immedesimazione, riscatto, poi arriva, arriva sempre quel fischio. Maradona più di ogni altro sportivo in calzettoni e mutande ha saputo interpretare questo viaggio burrascoso, è stato l’Achab sul dorso di Moby Dick, colui che ha provato a uccidere la balena bianca. La sua esistenza è oltre il calcio, oltre lo sport e gli applausi, oltre gli strati di polvere dei decenni. Maradona è la piazza greca, è il popolo che chiede cibo ai regnanti, è la signora fuori dal “vascio” dei Quartieri Spagnoli che se ne sta seduta sulla sedia di plastica aspettando Dio. Per Napoli e per gli ultimi dei Sud, fu davvero D10S.

Esistono alcune immagini perfette infilate dentro film perfetti su Diego. Nella pellicola di Emir Kusturica (“Maradona” del 2008), l’incontro tra il Pibe de oro e Manu Chao. «La vida es una tómbola, de noche y de día/La vida es una tómbola, y arriba y arriba» canta e suona il menestrello parigino di origini spagnole, davanti al semidio del calcio ormai sballottato tra processi mediatici e ricoveri medici. La chiesa maradoniana, dove a centinaia si riversano dinanzi alla cappella votiva del loro idolo. Il viaggio da Buenos Aires a Napoli, Cuba, Belgrado.

Il film di Asif Kapadia (“Diego Maradona”, del 2019) invece si apre con l’arrivo di un giovane calciatore nel profondo Mezzogiorno italiano, accolto dal tripudio di una comunità in ginocchio per terremoti, camorra e sciatteria istituzionale a ogni livello. Ma poi vengono in mente tante altre cose ben fatte. Anche il nostro Marco Risi provò a raccontare el genio del futbal mundial, non mancando di inserire in un montaggio (a metà tra fiction e documentario) l’istante in cui Diego viene accompagnato a bordo campo da un’infermiera, in quella che fu una pantomima per spedire fuori dal mondiale statunitense lui e l’Argentina. Forse è in “Maradonapoli”, diretto nel 2016 da Alessio Maria Federici, che un tifoso ne fa la giusta pennellata: «È stato l’unico demone che ci ha portato in paradiso». In un articolo su Repubblica del 1985, il grande Gianni Mura scriveva: «Raramente, credo, il nostro calcio ha mostrato un’adesione così immediata fra l’anima di una città e quella di un uomo (non di una squadra, o almeno non direi, ancora). Anche la lingua aiuta: guappo, guapo, lo capiscono anche a Baires, tango e tammurriata hanno le stesse cadenze. Maradona, artefice magico, estrae dal cilindro del suo piede miracoli a gettone. Meglio non credere più ai miracoli, Maradonapoli è oro; è ora, forse». Era il Maradona-Città. Su Amazon Prime Video ultimamente è stata pubblicata la serie “Maradona sogno benedetto” tra i cui registi figura anche Edoardo De Angelis. E Paolo Sorrentino ha intitolato il suo nuovo film “È stata la mano di Dio”, che non è una storia su Maradona… ma El Pibe de oro c’entra in qualche modo. El pibe c’entra sempre.

Il capello di Maradona si rifà vivo, o almeno credo. Striscia sulle mura dei Quartieri. È un tratto nervoso, si dimena, si contorce e prende le forme di un fumetto. È notte. Mi sono accorto di essere arrivato nell’angolo più festoso dell’idolo di casa. Sopra la faccia di un palazzo, la gigantografia di Diego, il viso è fatto dalle finestre, e lui corre. È diverso dal murale di Jorit sulle palazzine-casermoni di San Giovanni a Teduccio. Mi ricorda i tratti di graphic novel che gli hanno dedicato: lo sguardo deciso da “il re scugnizzo” (Solferino editore), la plasticità dei corpi de “La città di Diego” con i disegni di Lorenzo Ruggiero e Massimo Rocca e i testi di Giovanni Marino (pubblicato per laRepubblica), o la genuinità del tratto in “Diego Armando Maradona” di Paolo Castaldi (Becco Giallo). C’è sempre una frase di Gianni Minà che mi pulsa in testa: «Lui ha spesso cercato la serenità e molte volte non gliel’hanno voluta accordare». Un grande giornalista Minà, l’unico a poter vivere leggende: uno che ha raccontato Sergio Leone, Muhammad Ali, Roberto De Niro. Ultimamente per i tipi della Minimum fax è uscito il suo “Maradona: «Non sarò mai un uomo comune» Il calcio al tempo di Diego”.

E ora mi trovo qui, da solo, nel silenzio dei Quartieri. Il padre e il bambino staranno dormendo da un pezzo. Il capello di Maradona salta una pozzanghera e ridiscende verso Piazza Dante, Bellini e i Tribunali. Ma io lo so che non è un sogno. Un uomo che si fa città non è uno scherzo. Non è folclore. Non stiamo parlando di donne che battono le pentole per la vittoria dello scudetto vinto dal Napoli o di fuochi artificiali sparati nell’alto dei cieli per settimane, quasi a voler invitare altre divinità ad ammirare il semidio dal casco nero. Dietro la rivalsa, la disperata voglia di essere primi e di identificarsi nell’eroe dal tallone d’Achille – come in una storia di Omero – c’è l’epica di un popolo sconfitto, povero e bistrattato. Ridotto a maschera di se stesso. Diego Armando Maradona, da Villa Fiorito, giunse a Napoli e prese sulle spalle secoli di antropologia e sociologia autoctona, lui che a 15 anni aveva tratto fuori dalla miseria la sua intera famiglia, grazie alle prodezze dei suoi piedi. Chi si avvicina al mito maradoniano con superficialità e ironia, cadrebbe in errore e finirebbe per lasciarsi sfuggire il sapore del mistero, come il sangue di San Gennaro che si scioglie o quel mare che “non bagna Napoli”. Ecco son caduto anche io nel cliché. Chi era insomma Maradona? Mi sono rimesso a camminare. Maradona era morto. In fondo non era così. Il suo ricciolo si è messo di mezzo. Sarà tornato al bar davanti al Nilo. Aspetto la mostra del COFFI, per dare una risposta a quella domanda: “Chi era insomma Maradona?”. Ma forse è meglio che mi rimetta a scrivere il soggetto del cortometraggio.

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